i bambini vanno protetti… dai colpi d’aria perché se si ammalano per aver corso in cortile e aver sudato, il loro sistema immunitario, che nella maggior parte dei casi fortunatamente è ben funzionante sin dalla nascita, reagirà e combatterà quelle che sono minacce per l’organismo. Perché quando sono malati imparano ad ascoltare i segnali del loro corpo, ad accettare che non sono dei super eroi.

i bambini vanno protetti… dai colpi d’aria perché se si ammalano per aver corso in cortile e aver sudato, il loro sistema immunitario, che nella maggior parte dei casi fortunatamente è ben funzionante sin dalla nascita, reagirà e combatterà quelle che sono minacce per l’organismo. Perché quando sono malati imparano ad ascoltare i segnali del loro corpo, ad accettare che non sono dei super eroi.

Non vanno protetti dai graffi sulle ginocchia o dai lividi sui gomiti. Perché nelle cadute sperimentano che il mondo ha degli ostacoli, che devono diventare competenti per superarli, che le azioni hanno conseguenze, talvolta dolorose e che lasciano dei segni. Che non si muore per un graffio, ma senza si stava meglio. Che i lividi fanno male, ma stare seduti sul divano per evitare di cadere è molto noioso.

Non vanno protetti dalle liti, dalle delusioni, dalla fatica. Perché in queste occasioni impareranno che la vita richiede capacità di negoziazione: con gli altri, coi nostri sogni, con la nostra capacità di resistenza. E che dalle liti nascono amicizie, dalle delusioni sogni più giusti per ciascuno di noi, dalla fatica grandi risultati.

Vanno protetti da noi adulti.

Dalla nostra immaturità che ci fa fare un passo avanti e due indietro nell’educazione: togliamo il ciuccio, ma poi lo portiamo in borsa così glielo potremo dare se faranno i capricci; regaliamo lo smartphone a Natale, ma poi andiamo di nascosto a leggere le chat di whatsApp. Diamo autonomia, ma poi la togliamo al primo ostacolo perché costruire l’autonomia di un bambino è un percorso lungo, a volte faticoso, fatto di errori e cadute. Che richiede tempo e impegno.

Vanno protetti dalle nostre aspettative, nel bene e nel male, che ci portano a fargli fare una strada che tracciamo noi, costruita su ciò che crediamo sarà giusto per loro e non sui loro reali desideri, aspirazioni, bisogni. Allora li sfiniremo di allenamenti intensivi di sci o di esercitazioni al pianoforte perché li vorremmo novelli Tomba o concertisti della Scala. Oppure gli impediremo di giocare a basket, convinti che non sono portati e che quindi provare non vale la pena.

Vanno protetti dalla nostra ansia di offrire loro possibilità. E quindi come palline del flipper impazzite correremo da un lato all’altro della città per non fargli perdere nessun corso o torneo o workshop. E nella corsa ci dimenticheremo di chiedere a loro cosa vorrebbero fare o semplicemente come si sentono.

Vanno protetti dal nostro bisogno di accudirli, di prenderci cura di loro, di garantire la nostra presenza in ogni momento. Perché la loro dipendenza, i loro capricci quando ce ne andiamo, il loro “non sentirsi pronti per star lontani da noi” diventano la misura del nostro valore, del nostro impegno profuso per loro, della nostra identità. Non sappiamo lasciarli andare perché senza di loro non sappiamo chi siamo, perché il loro attaccamento ci dimostra che siamo importanti per qualcuno e sfruttiamo la dipendenza per darci una forma e non indagare sul nostro contenuto.

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